Il teatro ci tiene in ostaggio

Intervista a Lorenzo Bazzocchi e Catia Gatelli

Come è arrivata la matematica a nutrire il vostro teatro?

L.  Vi abbiamo trovato un mondo di intuizioni totalmente rivoluzionarie e così strettamente legate all'atto della creazione artistica  da portarci a  sondare sempre di più il procedimento matematico e in particolare quello logico-matematico.

Il matematico è solito partire da assiomi per comporre sistemi complessi seguendo un procedimento che solo all'apparenza sembra così rigido.

Molto spesso procede per tentativi e spesso non sa se riuscirà poi a formalizzare cio' che vede con l'intuizione.

Noi subiamo il fascino di questo metodo anche se le nostre interrogazioni  non sono dettate dalla ricerca di modelli compositivi da adottare, quanto da confrontare.

Così se i nostri lavori si allontanano da quella regola paralizzante che é la trama  almeno se vista in termini di inizio, svolgimento e fine, questo avviene non perché non si abbia un progetto del dire; vogliamo semplicemente donarci la libertà di inseguire altre cose  al di là delle intuizioni iniziali. Forse è anche per questo che non affrontiamo mai testi teatrali. Personalmente sono portato a considerare un plagio d'idea  di rappresentare  Shakespeare .

Noi sentiamo di vergognarci di meno se affrontiamo delle strade dove la traccia teatrale è più lontana .

Così, quando incontriamo l'Anti-Edipo di Deleuze-Guattari, sentiamo che quello che viene detto è per un mondo che sembra lambire il teatro pur rimanendo ad una distanza sconfinata e senza invito alla rappresentazione.

In quel caso il procedimento di traduzione solida dei concetti espressi nel libro di Deleuze ci sembrò il metodo più adatto per avvicinarci alla realizzazione scenica.

 

Cerchiamo di ripercorrere questo metodo. In principio è il lavoro concettuale, l'approfondimento teorico, e poi avviene una traduzione solida che si esprime in una scena di macchine e attori. I vostri lavori ci mettono di fronte, o dentro talvolta, a una grande mole di elementi scenici, capaci anche di un funzionamento. Non possiamo parlare di scenografia, siamo piuttosto vicini a una dimensione drammaturgica dell'intera costruzione scenica. E nemmeno possiamo parlare in chiave futurista di un "culto della macchina". Di cosa allora?

L. Le macchine sono pezzi di ferro, hanno un loro colore, sono fatte di un materiale che noi lasciamo come troviamo. E il metallo è come un drappo rosso; può sembrare paradossale ma non vedo differenza nell'utilizzare una sedia, un tavolino o un pistone che solleva delle cose. Semplicemente sono colori e funzionamenti.

Certamente la macchina esercita il suo fascino quando non è produttiva bensì   asservita al suo solo funzionare, quando cioè richiama al paradosso che il più debole è più forte  del più forte. Quindi una macchina che più che simulare le forze naturali le dissimula.

C'è dunque un amore  se per macchina s'intende costruzione filosofica stritolante.

Forse azzardo troppo, ma credo che lo stretto legame con la macchina, le innumerevoli macchine che abitano  il luogo dove vive il nostro attore, sia da attribuire all'intima convinzione che il concetto stesso di macchina sia indissolubilmente legato al concetto di vita.

 

 

Ti riferisci a un'umanità della macchina?

L. Vorrei partire dai  cosidetti sistemi esperti, ma subito mi rimbalzano in mente due diversi ordini di ricordi.

Il primo è l'inizio di un articolo di Turing che esordisce col porre la domanda "Le macchine possono pensare?", il secondo vede le parole di Edison nell'Eva Futura di Villiers quando il famoso inventore, rivolgendosi a Lord Ewald, gli ricorda  In fondo una donna quanti sorrisi può mostrare? In quanti modi può portare il passo ……Questo è il suo presupposto, è inutile dirsi che l'uomo è infinitamente variabile.

Nella nostra Eva futura a lungo abbiamo inseguito queste considerazioni traducendole in quello che abbiamo chiamato Automa Video.

Qui ritorna la problematica che da tempo assilla la nostra ricerca ossia se le strutture computerizzate possano implementare processi di pensiero.

E forse riferirsi ad una umanità della macchina significa anche chiedersi se esista un procedimento effettivo  per dimostrare se un essere sia consapevole o meno.

Ma ritorniamo al concetto di sistema esperto, ossia di un sistema, computerizzato, che sia stato costruito da un esperto umano e supponiamo che questi né possa aver copiato le competenze in modo così fedele e dettagliato che amici e colleghi che interagiscono col sistema possono riconoscervi il particolare stile di pensiero .

Molto tempo dopo la sua morte, essi potrebbero addirittura, in un certo senso, interagire con la figura che essi conoscevano. E allora ci si interroga "Uccidere un sistema esperto è lecito"?

L'operazione che noi abbiamo chiamato automa-video presente in Eva Futura è una simulazione di un sistema esperto: ad Edison viene data la capacità tecnica, a suo tempo e ancor oggi quasi impensabile,  di assemblare una struttura automatica in  grado di riorganizzare materiali video e audio, in modo sensato, relativi a se stesso durante gli ultimi vent'anni della sua vita e riproporli formulando un'altra personalità, una figura virtuale, un automa insomma in grado di interagire, di discorrere e proporre. D'altra parte già in pochi anni si può cambiare profondamente e dieci anni possono farci scorgere un altro di noi stessi.

Naturalmente progettare una relazione  che risulta alla fine  dei conti la simulazione di una simulazione impone all'attore una partitura rigidissima.

Ma il terreno su cui si sta lavorando è così fertile che non vedo molto lontani risultati interessanti.

Credo che per il teatro vedere dialogare figure virtuali, nel senso di sistemi esperti, quando le tecnologie  lo permetteranno fin in fondo, sarà una cosa meravigliosa.

 

Facciamo un passo indietro. Insisto. Si può mettere ordine tra gli elementi compositivi? Puoi addentrarti nel metodo di composizione teatrale?

 

L.  Spesso  ci siamo interrogati su cosa significa composizione, non guardando il teatro, bensì cercando di vedere in un quadro, per esempio un quadro di Kandinsky. E Kandinsky posiziona ombre, lacune, colori, assembla geometrie, parole. Oppure Bacon, che studiamo da diversi anni per cercare di capire che cosa significa porre colori, figure, strutture le une vicino alle altre.

Quando gli viene chiesto Perché proprio la svastica in quel braccio? Lui risponde semplicemente che il rosso della banda e il nero-bianco della croce uncinata si adattano perfettamente all'incarnato della figura, quindi niente di ideologico o altro.

Il procedimento che usiamo si riallaccia al caso  di Bacon quando componiamo delle voci, dei metalli, dei suoni, dei corpi; è un procedimento non progettuale, si basa  su intuizioni, sì, ingabbiate da regole a volte rigidissime, ma la struttura vogliamo nasca da sé, che abbia una propria vita.

In una certa fase del nostro lavoro l'interrogazione sul fare divenne così urgente da condizionare la tematica di Crisalide 98, che fu incentrata sull'atto di creazione.

In effetti già l'andamento dell'anno precedente che aveva visto affrontare da Tierry Salmon lo spazio scenico, aveva trovato un suo stato direi intimo, con continue interrogazioni sul procedimento.

Fu nella primavera di quell'anno che affrontammo in modo deciso lo studio della vita di alcuni matematici e le scoperte di quel periodo ci sembrano ancor oggi strabilianti.

Pensare ad un Cantor, inventore dell'insiemistica e dei numeri transfiniti, parlare delle idee come bambini che lasciati andare percorrono strade a loro ignote……..

 

Ciò ha a che fare con "l'imbattersi fortuito"?

 

C.  I ricercatori che conducono esperimenti sul campo ipotizzano, sviluppano, verificano, poi analizzano; in questo processo l'ipotesi non è un oggetto definito, molto spesso è un'intuizione, neppure sulla carta, qualcosa di informe che spinge per venire al mondo e l'analisi a posteriori non è che un'acquisizione di consapevolezza che permette di capire ogni volta il percorso intrapreso. Ogni volta è un ignoto cui andare incontro. E poiché l'ignoto non è mai uguale a sé stesso, è necessario capire ogni volta come affrontarlo.

Dato un effetto quale macchina può mai produrlo?

Compiamo percorsi a ritroso. In questo senso andiamo incontro ad una conoscenza fortuita delle nostre opere. La domanda che cos'è Nur Mut arriva  dopo lo spettacolo. L' imbattersi fortuito, come forma di  conoscenza, ci è molto cara. Periodicamente rileggo il testo di Blanchot la scrittura del disastro e proprio in quel periodo stavamo lavorando sulla possibilità di un rapporto ravvicinato con lo spettatore. In  Coefficiente di fragilità abbiamo letteralmente applicato questo concetto di imbattersi fortuito, nel tunnel che porta questo nome, in cui avviene un incontro fortuito e iperravvicinato tra l'attore e lo spettatore. Un incontro di due alterità complementari. Questo incontro prevede una garanzia, che implica un ostaggio. Voglio applicare all'attore, la definizione di garante non consenziente. Il teatro ci tiene in ostaggio.

 

Quali sono, se ce ne sono, le regole teatrali di questo mondo dominato dalle idee?

 

L. Vi sono delle regole primarie che hanno sempre accompagnato il nostro lavoro: sentiamo ciò come necessario, altrimenti tutto sembrerebbe possibile.

Ogni volta inseguiamo regole fondamentali e solo quando le abbiamo individuate sentiamo di poter procedere, cominciare il lavoro; a quel punto non si può tornare indietro, possiamo solo andare avanti, pur sapendo che  ciò comporterà una enorme quantità di lavoro.

Nur Mut per esempio che viveva sul concetto di macchina desiderante, atta non a produrre bensì a  funzionare,  prevedeva tutta una serie di organismi meccanici all'apparenza inutili, se isolati, ma che dovevano funzionare.

L'archetto" che avvolgeva la testa della figura nella stazione antropometrica era provvisto di piccole luci a 24 volt.

Ogni luce si accendeva contemporaneamente all'azione di cinque elettromagneti collegati a martelletti per pianoforte: il volto dell'attore era sollecitato dai martelletti. Per evitarli era costretto a compiere micromovimenti, a volte della fronte, del mento, degli occhi…

A sua volta, la figura era collegata con una treccina ricavata dai suoi capelli ad un tamburo rotante che registrava questi microspostamenti.

Ci eravamo imposti di evitare qualsiasi aiuto al funzionamento del meccanismo da parte dell'attore, non per un desiderio di mero automatismo, ma perché sentivamo la necessità di rendere l'attore e tutti quegli organismi meccanici  autonomi, indipendenti gli uni dagli altri.

Sentivamo dovessero avere una vita propria.

Se un meccanismo è presente, è insensato sia finto. Piuttosto crepo dieci notti.

 

Per allontanarti dalla finzione, dalla dimensione della rappresentazione?

 

L. Anche un apparato di finzione è una sorta di meccanismo che, per vivere, deve comunque funzionare.

Quello che inseguivamo era una sorta di organismo al cui interno ogni porzione, ogni segmento avesse una vita propria, quasi biologica.  Ma quella che allora definimmo "drammaturgia del sottoracconto meccanico", aveva bisogno di essere colta quasi al microscopio.

Non aver deciso di adottare per Nur Mut una visione ristretta e ravvicinatissima, fu un errore di cui solo ora ci rendiamo conto: troppo  parziale risultava la percezione dello spettatore.

 

 

Parlatemi di questo spettatore.

 

L.  Vorrei subito dire che non credo alla formula per cui c'è teatro quando oltre alla scena c'è almeno uno spettatore, forse non c'è spettacolo senza spettatore, questo sì.

Io sento che il teatro può vivere senza spettatore, o almeno lì dentro si può vivere anche senza che qualcuno veda.

Questo non sta certamente a dire che il nostro teatro esclude lo spettatore, anzi interi lavori come Coefficiente di Fragilità o I vapori della sposa vedono nella loro composizione drammaturgica la presenza dello spettatore.

Non percorriamo una visione solipsistica  della scena, ma crediamo che lo stato dell'essere in scena abbia uno statuto di realtà, entro il cui recinto l'attore, isolato a un perenne confronto con sè stesso, vive e crea le sue regole indipendentemente da colui che guarda.

 

 

C. Credo di poter affermare che i nostri spettacoli siano organismi viventi con funzioni vitali, non con organi produttivi. niente lingua, niente bocca, niente denti, niente..niente stomaco, niente esofago, niente ventre, niente ano, niente. 

Non ci sono organi in funzione produttiva nei nostri spettacoli, ci sono funzioni vitali in moto, nelle quali  l'attore è inserito e contribuisce quindi come ogni altro elemento al funzionamento dell'organismo. Guardando Nur Mut, potrei pensare ad un motore fermo. Esiste, ha una sua vita, anche da fermo. Forse l'attore è colui che lo mette in moto.

 

 

Scartando l'ipotesi della rappreentazione, cosa avviene sulla scena di masque teatro?

 

L. In questo momento stiamo guardando al problema della realtà e della finzione al quale non è scollegato il problema della simulazione e il tutto si riallaccia alla realtà dell'attore. Noi abbiamo la sensazione di vivere lì, in scena, e non dico di non vivere qua, ma quasi.. Alcune suggestioni ci arrivano del teorema di Kurt Gödel: Nel 1931 Gödel concepisce il Teorema di Incompletezza, cioè riesce a dimostrare che in un sistema formale, in ogni sistema sufficientemente potente, esiste almeno una proposizione che è  vera ma che non è dimostrabile. Così viene introdotto nella matematica un concetto allucinante che è quello di fede: bisogna credere. E' possibile che esistano situazioni vere non dimostrabili? Lui ci dice: è possibile. Forse è anche possibile addirittura concepire l'attore come il vero uomo che è sulla scena mentre contrariamente si pensa a una rappresentazione di altro da sé. Questi addentellati introducono la possibilità che esista una sorta di realtà più vera o vera comunque anche se sembra basata su dei presupposti di finzione. In scena avviene un'alterazione, mi vesto diversamente dalla mia vita quotidiana, dico cose che normalmente non dico, affronto situazioni non consuete, ci sto pochissimo tempo, eppure lì sento, non solo desidero, sento che sono vicino a quello che vorrei essere. Chiunque potrebbe confutarmelo ma io mi sono sempre chiesto: è quella la mia vera vita?

 

 

C.  Tra le differenti e contrastanti scuole della psichiatria che si sono occupate di isteria e di ipnosi, si afferma che il soggetto isterico non è mai un semplice automa abbandonato alle suggestioni dell'ipnotizzatore, ma sa sempre ciò che finge di non sapere….

Il soggetto isterico è predisposto all'ipnosi, collabora con l'ipnotizzatore. Nel simulare la sua propria ipnosi, si lascia completamente possedere da essa.

Tutto ciò è molto vicino al nostro concetto di attore: una figura, piuttosto che un personaggio, nella quale non sono importanti le caratteristiche del carattere, la psicologia; questa figura non è storicizzata, né costretta in un ruolo. Nuovi esseri viventi corrono paralleli alla nostra vita.

 

Che valore o che problematiche porta la parola, o la verbalita', nell'opera?

 

C. Ho detto che gli elementi compositivi hanno per noi tutti uguale valore, ma in realtà, non so se posso dirlo con certezza, relativamente a ciò che tu chiami verbalità. La parola è tiranna, o meglio: è il linguaggio che tiranneggia costantemente. Come se il linguaggio che conosco fosse non adatto, fuori luogo, coercitivo della parola che vorrei esprimere. Non sento di poter utilizzare il verbo recitare, così come il linguaggio lo configura, né il sostantivo testo.

 

Pero' per le altre componenti della scena hai dei nomi.

 

C. C'è una ricerca in tal senso. Abbiamo usato parole come scultoscenografia, architettura scenica;  le discipline tecnico-scientifiche aiutano. Il tipo di linguaggio utilizzato impone una coerenza della parola, quasi una sottomissione a cui sento di non voler aderire. Ma se non posso parlare di testo poetico, narrativo o saggistico, come posso parlare? Fortunatamente la parola non è un'esigenza primaria nel nostro teatro; il problema comunque esiste , anzi scalpita.

 

L.  La parola compare pian piano nelle nostre opere di pari passo  al desiderio sempre più crescente di legare il teatro alla filosofia.

Man mano che i concetti  diventano più complessi abbiamo un'estrema difficoltà  a rappresentarli solidamente.

In Seleniazesthai, ispirata al Faust, l'anelito all'immortalità si traduceva nello scambio di questa con la  mobilità: avere eternamente la possibilità di vedere e con questa di pensare rinunciando per sempre ad ogni possibilità di movimento.

E così nasce l'uomo-albero-gesso, una figura gessata incastonata nell'incavo dell'albero.

Non che il lavoro allora fosse concettualmente semplice, ma era chiaro come tradurre il pensiero in struttura solida, in immagine.

Abbracciare la filosofia che usa la parola, la parola scritta, impone traduzioni più complesse che impongono l'ingabbiamento dell'immagine nelle maglie stesse della parola.

 

Stai mettendo in discussione certi presupposti di un teatro in cui la parola non sembrava voler fare da padrona.

 

C.  Sì, però ciò va visto nell'ottica di un testo non scritto per il teatro

 

L. Per me non è solamente questo, sta subentrando anzi un piacere dell'utilizzo della parola.

C. Tu subisci il fascino della parola scritta, che è la parola più bella, e proprio perché è scritta, esercita questo fascino.

Però io non credo che sia la parola scritta quella che noi cerchiamo, e oltretutto il testo drammaturgico non ci interessa.

 

E neppure quello poetico.

 

C. Sì; quali parole utilizzare per dare voce ad un pensiero matematico, filosofico? In altre parole, come dare corpo e voce ad una scrittura che non prevede l'idea di rappresentazione? Quando Lorenzo parla di plagio rispetto ai testi classici, intende il plagio dell'idea. La drammaturgia contiene l'idea: un testo che prevede la rappresentazione, contiene in sé un'idea di teatro. Tutte le possibili regie, e le rivisitazioni postume, sono comunque un'appropriazione dell'idea e non mi interessa farlo. Uscire dall'ambito della scrittura drammaturgica, significa intraprendere un'ardua sfida. E' un problema di orecchio e di conoscenza; L'orecchio riconosce con piacere ciò che conosce ma desidera anche andare verso sonorità differenti o sconosciute. Non sono pochi gli ostacoli che incontra: questo desiderio di conoscenza è continuamente osteggiato da un linguaggio che afferma la sua indiscussa padronanza nel territorio della comprensione.

 

Si può dire che stiate lavorando a un teatro- filosofia?

 

L. Ci stiamo interrogando sulla possibilità di rappresentare un testo  di filosofia, di mettere in scena  pensiero puro.

Che cosa significa? Come posso estrarre la parola scritta, che sembra totalmente necessaria a se stessa, e utilizzando i mezzi del teatro trascriverla sulla scena?

Siamo in una fase che può portarci al disastro, sono ancora vive le difficoltà incontrate nel comporre Improbabili previsioni del tempo.

Il tentativo di tradurre, nel linguaggio teatrale, discipline, che io insisto a dire, solo apparentemente così lontane dal teatro, quali la matematica o la scienza in  generale, comporta gravi problemi da risolvere.

Esiste a Londra una corrente di teatro scientifico; persone si interrogano  su come trasmettere la scienza in ambito teatrale ma non ad un livello meramente pedagogico, bensì per commutare le due entità in una sola degna, che non sia nè teatro-scientifico nè scienza portata a teatro, ma semplicemente teatro.

Mi vengono in mente alcuni passi dello scritto di Antonio Attisani Teatrum Philosoficum, nel quale racconta dell'incontro avvenuto negli anni settanta tra Deleuze e Carmelo Bene, e come quest'ultimo suscitasse nel primo una riflessione sul teatro e la filosofia..

Certamente lì nacque la sua relazione con il teatro. Prima non lo aveva mai considerato. Da allora quasi tutti i suoi scritti richiamano metafore teatrali.

Ci sono stati autori come Pasolini, figure con una idea filosofica precisa  ma sono casi rari che sembra non riescano ad incidere profondamente nella discussione generale sul teatro.

Stiamo operando un grande sforzo per tradurre problematiche inerenti la filosofia nel mondo teatrale.

 

Non temete che questo provochi una selezione troppo radicale nel pubblico?

 

L.  Non cerchiamo assolutamente un pubblico di elite.

La filosofia può essere avvicinata anche se l'approccio alle terminologie tecniche di questa disciplina è irto di difficoltà.

Ma è una sfida interessante.

Il teatro vive sulla ricerca di nuove modalità di trasmissione, è alimentato dal tentativo e dal suo possibile fallimento.

C'è una costante discussione sulle possibilità di comunicazione. Come affermo che l'opera può vivere da sola, quando vive con lo spettatore deve comunicare con lui.

 

La vostra è una scelta teatrale avvenuta lontano dal teatro. Cosa vi ha spinto se il teatro che conoscevate vi era distante ed estraneo?

 

L. Non si aveva una consapevolezza, lo stesso termine teatro apparteneva  più ad una sorta di aspirazione, che ad una realtà tangibile. Se risaliamo ad uno dei nostri primi lavori, Prigione detto Atlante, è significativo rivelare che il titolo doveva essere Il Senso della Vita. Nacque dopo un viaggio in India e la lettura della Bhagavadgita. Era l'inizio dell'unione con Catia e si fondevano questo sentimento e il desiderio di cogliere una nuova possibilità. Il passo comportava per me un cambiamento radicale. Non ero più un diciottenne, ero ingegnere, avevo comprato una casa pericolante, l'avevo io stesso restaurata, e poi rivenduta.

Sono stati proprio quei denari a darci la possibilità di affittare il vecchio granaio, che ora è il Ramo Rosso, di acquistare le attrezzature e le macchine necessarie per iniziare.

 

Hai parlato in alcune occasioni della possibilità data dall'esperienza teatrale di "vedere oltre"

 

L. Vedere oltre è una doppia parola, è quasi insondabile. Posso parlarne in chiave di pratica attoriale. E riemerge un pensiero su cui spesso riflettiamo: mi vergogno di meno di essere uomo quando sono attore. Nell'impero dell'ingiustizia, della finzione, della superficie patinata che è il mondo in cui viviamo, non trovo  presupposti validi  per l'attività artistica, eppure, quando sono attore, sì, mi vergogno di meno di essere uomo. Forse anche a motivo del  lavoro attoriale che conduciamo, appoggiato spesso  su dimensioni ipnotiche o di trance. Parliamo infatti di una cordicina dietro la nuca, abbiamo elaborato metodi per raggiungere uno stato altro  e là io mi sento compiuto, sento che ho la possibilità di sopportare gli sforzi materiali e le miserie umane.

 

C'è un senso di teatro come possibilità di "trasformazione"?

 

L. Ho sempre creduto che il teatro potesse essere un mezzo per estrarsi dal quotidiano ed elevarsi ad un'altra vita che qualche anno fa consideravo meravigliosa; grandi fatiche hanno minato questa mia convinzione.

Pensavo che il lavoro teatrale potesse avere una qualità superiore. E forse lo credo ancora: imparare a saldare il ferro, trattare il legno, lavorare la vetroresina,  parlare di Wittgenstein o leggere Deleuze; la possibilità di conoscere mondi tra loro così lontani, esercita in me un fascino estremo.

Lavoro dieci dodici ore e nonostante tutto al termine della giornata non mi sento stanco.

Le passate esperienze lavorative mai mi avevano offerto una libertà di conoscere così sconfinata. Certo  vivere è duro….e sono state numerose le persone che ci hanno accompagnato per un tempo, e poi lasciato.

Sì è difficile rendere il teatro un estrattore.

 

Stai dichiarando una solitudine?

 

L.  Sì, pur avendo dato moltissimo, intravvedo una sorta di fallimento.

 

Come procedete alla ricerca di nuove figure da aggregare al gruppo, su quali basi avviene il reclutamento?

 

C.     Non abbiamo mai cercato persone che provenissero da una formazione teatrale accademica.

 

L.  Il che però è una constatazione.

 

C.   No, è anche una decisione, ho sempre detto no a chi veniva da una scuola, perché ci sono problematiche scolastiche per le quali non abbiamo tempo né energie da perdere.

L. Molti reclutamenti sono stati casuali. Non abbiamo mai scelto col metodo del provino. E comunque abbiamo sempre cercato di avvicinare le persone al nostro lavoro per successive tappe, cercando di integrarle fin da subito in tutti i settori del nostro lavoro, naturalmente in base alle singole aspirazioni ma anche alle competenze specifiche.

Per molto tempo abbiamo anche inseguito l'idea che potesse nascere attorno al Ramo Rosso una sorta di comunità favorendo l'insediamento di altri laboratori non solo di artisti ma anche di artigiani, fabbri, falegnami…anche questo rientrava nel concetto di estrazione. Il desiderio, comunque, di integrare completamente le figure all'interno del gruppo, ha creato difficoltà non sempre superabili… Il lavoro spesso è molto duro, qui da noi, e le problematiche economiche unite forse ad un'urgenza verso la cosa teatro non così pressante  hanno spinto molti ad allontanarsi.

 

 

C.  Io continuo a pensare, anche se questo mi affatica, che il nostro lavoro richieda una metamorfosi del corpo, possibile solo se la si pratica anche al di fuori della scena. E continuo a ripetere alle persone che lavorano con noi, che spazzare, saldare, lavorare il legno, pulire, fare cemento o spostare mattoni è lavoro dell'attore. Certo Bertrand Russell rimase piuttosto contrariato quando Wittgenstein consigliò caldamente ad un suo allievo di praticare il lavoro di meccanico…Non ci interessano persone della strada, bensì persone, sì sufficientemente sprovviste di strumenti teatrali convenzionali, ma  armate di volontà, plasmabili nel tempo da una pratica strettamente connessa al teatro, e che, se ben compresa, dà vita al teatro, altrimenti, può distruggere.

 

Distrugge per la pesantezza del lavoro fisico?

 

C. No, il lavoro fisico che distrugge è quello delle miniere. La difficoltà forse sta nella richiesta di affrontare il lavoro materiale, il lavoro fisico e quello attorale, come un'unica attività. Là dove non c'è consapevolezza di ciò che questa richiesta comporta, allora è necessaria una enorme pazienza, che risulta nell'immediato a scapito della comprensione ma che può forgiare una profonda consapevolezza in coloro che non hanno smanie di arrivismo.

 

E' questo che chiedete a chi viene a lavorare con voi?

 

C. E' questo e deve risultare come una enorme richiesta. Le persone che lavorano con noi non sono quasi mai soltanto attori. La richiesta di attenzione che la materia richiede a chi la avvicina, genera un'esperienza simile al delirio attorale.

 

Come affrontate le problematiche della sopravvivenza economica del gruppo?

 

L.  Il nostro lavoro non è praticamente mai pagato. Il teatro ci costringe al lavoro nero, alla totale precarietà. Non abbiamo mai avuto produzioni esterne per i nostri spettacoli, né sponsor, né contributi dall'ente locale. Le discoteche sono un ambito che ci ha permesso di finanziare per un certo periodo il nostro lavoro ma questi allestimenti richiedono molte energie che spesso sono risultate incompatibili con l'impegno che il teatro ci richiede.

I laboratori nelle scuole, alcuni interventi scenografici per altre compagnie, i più noti sono quelli per il Teatro delle Albe, ci hanno consentito di continuare il nostro lavoro.

La nostra sopravvivenza è costantemente in pericolo. E questa sopravvivenza  è comunque  possibile perché sappiamo fare quasi tutto.

Il problema grave è che la compagnia non si sostiene col proprio lavoro; inoltre come ricercatori totalmente impegnati nella propria ricerca, non ci occupiamo troppo del mondo esterno, di ciò che si dovrebbe forse fare per mantenere in vita la compagnia. Non siamo abili in ciò, qualcuno dovrebbe farlo per noi. Sarebbe fantastico.

 

Volendo rintracciare qualche indicazione ancora valida che provenga dal percorso formativo, ti chiedo, Catia, cosa rivaluti tra gli insegnamenti della scuola di Jacques Lecoq che hai frequentato a Parigi prima ancora di fondare Masque Teatro? 

C. L'esercizio della pazienza, la necessità di preparazione fisica e il rispetto del desiderio, compreso solo a posteriori,  di andare solo verso ciò che mi soddisfa.

 

A che cosa e' finalizzata la pratica fisica?  

C.   A ricercare criteri di non riconoscibilità, a scoprire di poter superare limiti conosciuti, a desiderare di scoprire limiti non conosciuti. Questa pratica è costante, avviene anche quando non siamo in preparazione dello spettacolo. Questa pratica, devo ricordarlo, è anche mentale.

 

L.  Procediamo con  la tecnica del parlare in continuo. Credo che esista per un corpo la possibilità di un  "2 + 2" cui non risulti un 4..Dunque: 2 + 2 = a qualcos'altro che non conosciamo. La tecnica del parlare in continuo è nata nel tentativo di trovare un metodo per introdursi in uno stato portatore di eventi creativi, la dimensione della trance. Certamente avevamo sperimentato come il lavoro fisico, quello attoriale, intendo, porti a stati similari, ma sentivamo l'urgenza di capire come arrivare in certi stati molto più velocemente e..allora abbiamo ideato questa tecnica che ha un effetto sconvolgente su di noi ma è difficile da trasmettere. Si tratta dell'obbligo di emettere, senza soluzione di continuità, parole la cui sequenza abbia una  logica sensata. Non può esserci mezzo secondo di interruzione; quando si lascia una minima pausa  tra una parola e un'altra si coglie il richiamo della realtà, della fisicità del luogo e sei spacciato. Ma quando non ti dai nessuna possibilità di pausa e il flusso delle parole procede ininterrotto, dopo un certo periodo di tempo, variabile a seconda del soggetto, allora si scatena qualcosa di non misurabile, non descrivibile. Sei pronto. Abbiamo esasperato questa tecnica al punto da essere in grado di passare in pochi minuti da una saldatura ad uno stato di profonda concentrazione attoriale. Questa tecnica non sempre viene accettata dalle persone che iniziano a lavorare con noi. Lo sappiamo, l'attore lavora con un vuoto, con niente.

Una persona che si avvicini a Masque teatro pensando che si lavori con un mondo di cose, si ritrova invece per mesi a lavorare col niente. Sì, ci sono  mesi in cui tutto è vuoto e questo può risultare drammatico, insostenibile, per chi soprattutto non è ancora pronto….

 

C.  Ci sono movimenti che hanno un potere direi quasi medianico per noi e che sono motivo di costante studio. Si tratta di gestualità e di stati considerati appartenenti alla diagnosi psichiatrica: movimento sincopato, lo stato catalettico, il sonnambulismo, il raptus, etc.

 

L. Al di là della patologia, ci sono stati esempi per noi a volte folgoranti, come quello del sabbiatore; tiene con le mani un tubo flessibile enorme che spara sabbia con una incredibile violenza. La forza del getto e il suo tentativo di contrastare tale forza, genera performance sorprendenti.

 

Alle fasi di studio teorico partecipano tutti i componenti del gruppo? 

L. Lo studio teorico è composto di differenti fasi di lavoro. Cerchiamo di coinvolgere tutti i componenti della compagnia nella ricerca di materiali di studio ad ogni livello, teorico, tecnico, pratico. E' una fase molto stimolante; ancora una volta significa addentrarsi in ambiti a volte completamente sconosciuti e ognuno adotta i propri mezzi per farlo. Lo studio dei materiali teorici avviene singolarmente e collettivamente. La discussione e la riflessione sono solo parzialmente collettive per evidenti motivi relativi alla stessa modalità della creazione.

La creazione, questa fase così delicata e contemporaneamente ferocemente spietata,  non può essere condivisa, è troppo intimamente connessa alla vita delle persone ad essa soggiogate. Cerchiamo, quanto più ci è possibile, di trasmettere questo delirio, ai componenti della compagnia che ce lo permettono.

 

Quali sono i passaggi da uno spettacolo all'altro?

L. Fino ad ora i collegamenti sono stati molto stretti: si lavorava su Duchamp e sulle macchine celibi, e i riferimenti erano Schwarz, Lyotard, Jean Clear. Da una parte Lyotard ci ha spinto nel mondo del sottoracconto meccanico, del concetto di cerniera e nei messaggi filosofici dell'anamorfosi, dall'altra la lettura del Grande Illusionista di Jean Clear ci fece conoscere il mondo della quarta dimensione di Pavlowsky, i suoi deliri su mondi macchinici antropomorfizzati. E in una piccola nota faceva riferimento all'Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, nonché all'Eve Future di Villiers. E così il passaggio dalle macchine celibi di Duchamp alle macchine desideranti di Deleuze e Guattari è stato un passo quasi obbligatorio. Poi, pian piano,  si sono sovrapposte altre letture, quelle sulla matematica le abbiamo affrontate negli ultimi quattro anni. Io come ingegnere, matematica non ne ho fatta, o perlomeno non ne conoscevo gli aspetti filosofici, ed è sempre stato Duchamp, con i suoi riferimenti a mondi a più dimensioni e quindi alle geometrie non Euclidee, a spingerci in quella direzione. Tra l'altro, anche se avevamo già introdotto in Nur Mut tutta una serie di testi sulla turbolenza, per molto tempo mi è sembrato spudorato attingere a fonti scientifiche e sono stati proprio gli artisti a dirmi che potevo farlo. Così  mentre si continuava a parlare  dell'Anti-Edipo io studiavo  biografie di matematici.

Abbiamo scoperto Gödel e con lui ci siamo incamminati verso tutta una serie di stati di verità non dimostrabili, non ultimi quelli relativi al mondo dell'isteria e della simulazione che costituiscono il nucleo centrale di Eva Futura.

I processi di simulazione ci hanno spinto ad affrontare quelli inerenti la realtà, il problema della realtà; il Don Chisciotte, su cui stiamo lavorando, viene dallo studio sull'isteria…sì, c'è una linea continua. Il corso degli studi non si esaurisce anzi si ramifica e ogni volta si aprono nuove strade.